Cusano, la dotta ignoranza e il valore della parola.
La filosofia non è altro che la scoperta dell’intelligenza e
dell’intelletto che ad essa consegue. Leggendo dentro la mente, infatti, io
posso dirmi intelligente e l’intelletto sarà il frutto o prodotto di quella
lettura interna. La filosofia, cioè, inaugura una realtà seconda, quella
appunto intellettuale, che si vuole affatto distinta dalla realtà mortale,
esteriore, in base alla quale l’uomo si trova obbligato a fare i conti con
“quel che passa il convento”, ossia con lo spettacolo della storia, dovendo il
mortale fare i conti, facendosene magari un’idea, con le cose che a lui si
apprendono dall’esterno. Il filosofo non ammette che l’uomo che si trova
costretto a prendere atto del mondo esteriore, regolandosi sulla base di
quello, possa dirsi libero, poiché costui sarà di fatto sempre assoggettato al
potere di qualcosa di estraneo alla sua intima natura, ovverosia asservito al
potere delle cose e non invece libero artefice della propria esistenza, considerata
filosoficamente come prodotto schietto e genuino dell’attività intellettuale
dell’essere pensante. Si è tanto più filosofi quanto meno si riceve notizia di
sé dall’esterno e quanto più, al contrario, la nostra esistenza viene a essere
il felice prodotto della nostra stessa attività intellettuale, la quale sola ci
dà spontaneamente il senso della nostra identità. L’identità del filosofo,
venendo in tal modo a coincidere perfettamente con l’attività del pensiero
stesso, non è un’identità rigida, assegnata da un potere esterno alla coscienza
secondo il modo dello spazio e del tempo, bensì è un’identità che, per quanto
sempre identica a se stessa quanto al suo essere il prodotto costante del
rapporto interno che si opera tra il soggetto e l’oggetto o noumeno – nascosti
entrambi a qualsiasi rappresentazione – appare al mondo come discontinua,
dandosi a divedere piuttosto come una sequela di giustapposizioni o di
occasioni felici, che non sono rette fra loro da nessun principio o legge di
causalità, il mondo risultante dall’attività operosa dell’intelletto
somigliando piuttosto a quel mondo che è in ogni istante “creato da Dio”,
avente come unica legge quella suddetta della consonanza tra soggetto e
oggetto: io sono in quanto io penso e io penso in quanto io sono. Cartesio, in
effetto, nient’altro dice che questo: che la chiave del mio essere è solo il
frutto del mio pensamento, ossia segue una regola esclusivamente interna,
affatto indipendente e separata da ciò che scintilla o vaneggia davanti ai miei
occhi mortali. Ha senso, a questo proposito, parlare di esistenza poetica come
affatto contrapposta a qualsivoglia forma di esistenza mortale o esteriore,
poiché il tempo e lo spazio in cui il filosofo si trova a vivere istante dopo
istante, in modo discontinuo e impermanente, ma al contempo senza soluzione di
continuità, non altrimenti debbono essere intesi che come il prodotto di un
atto poetico o creativo, la cui operazione, tanto palese nel suo risultato, è
invero indimostrabile quanto alla sua immediata operazione, per via del suo
collocarsi in un punto remoto da qualsiasi intendimento, la cui natura è
dell’increato e del sovrapersonale, non potendosi dare assimilazione alcuna tra
l’essere e l’apparire, tra il noumeno e il fenomeno, tra l’atto propriamente poetico
– intimior intimo meo et superior summo
meo – e il suo risultare all’infuori della sfera coscienziale in cui esso
si vuole liberamente prodotto.
Se venisse meno il senso di due realtà, entrambe umanamente
legittime e tuttavia antitetiche fra loro, cadrebbe affatto il discorso della
beatitudine filosofica, già enucleato da Aristotele, fra gli altri, quando “Il
filosofo” ci parla della vita teoretica come di quella che può dirsi divina a
giusto titola, in quanto affatto disgiunta da qualsivoglia esteriorità
anti-filosofica, ossia non intensa, non risultante dal limpido e fulgente
prodotto della cogitazione – co/agitazione – interiore. L’esistenza teoretica o
poetica è in effetto tutto ciò che io posso produrre affatto indipendentemente
dalle condizioni spazio-temporali a me assegnate dalla stessa nascita di me in
quanto fenomeno mortale, essendo quella rispetto a questa un perpetuo e fecondo
guadagno e non invece, come nel caso contrario, una sorta di necrofilo
parassitismo, trovandosi l’uomo non filosoficamente libero a nutrirsi piu’ o
meno scientemente della mortalità e delle sue infiorescenze.
Dice
Shakespeare nel suo sonetto 146: Buy terms divine in selling hours of dross…
Ciò vuol dire che il filosofo non fa nessun conto del tempo
mortale, affidato alle cronologie, che naturalmente si perde senza pro e senza
coscienza; il tempo esteriore, che non è della stessa natura del tempo
interiore, non ha nessun valore per colui che, da filosofo, vive scandendo un
tempo affatto altro; del tempo esterno alla coscienza meno si ha notizia o
informazione, più possiamo a ragione dirci liberi dalla mortalità e dalle sue
catene.
La consonanza tra il sonetto di Shakespeare e la formula
cusaniana che compendia il senso della dotta ignoranza è innegabile: quanto più
noi rimaniamo ignoranti su tutto quanto viene ad apprendersi a noi
dall’esterno, tanto più noi sentiamo e sperimentiamo di essere dotti ovverosia
liberi e non schiavi. Non si può negare che nel Cusano sia ben chiaro il senso
delle due realtà che si danno contesa nell’uomo: il mondo poetico che affiora
dall’intimo della coscienza e il mondo esteriore dei fatti e della storia, sul
quale non fa d’uopo affaccendarsi, pena la perdita della nostra libertà stessa.
Spinoza afferma che gli uomini, figurandosi di operare per la loro libertà,
altro non fanno che stringer le catene della loro schiavitù, poiché è sempre da
una coscienza eteronoma che ricevono regole e precetti, conformandosi
insensibilmente a un modello già approntato per essi da una qualche entità che
non è la pura facoltà intellettiva. Lo stesso Paolo, nella Lettera ai Romani,
invita “il fedele d’amore” a non conformarsi per nessun motivo “huic saeculo”, ossia alla legge
esteriore del tempo, la quale per il filosofo Bonaventura da Bagnoregio non era
altro che “deliciosa caligo”, tanto
strenua e possente ebbe a essere la sua attività intellettuale, al punto da
renderlo affatto immemore e insensibile delle cose forastiche alla sua
coscienza operosa ovverosia al suo intelletto agente.
Quando si pensa che l’operazione hegeliana aveva come unico
scopo quello di abbattere la realtà interiore dell’uomo, costringendo il futuro
cittadino dello Stato Etico a conformarsi obbligatoriamente a una qualsiasi
delle opzioni concesse dalla esteriorità della legge dogmatica dell’etica, non
si tarda a intendere che lo hegelismo non è altro che una liquidazione della
filosofia stessa, tanto più grave per il fatto che si ammanta del nome di
quella, rendendosi in tal modo insospettabile agli occhi degli storici, i quali
concludono col percepirla come una naturale evoluzione del pensiero, quasi che
l’identità di coscienza, l’essere e il pensiero stesso fossero delle condizioni
assoggettate al divenire della storia e non invece, come esse dan prova di
essere, dei saldi possessi dell’uomo intelligente…il paradosso e la farragine
della filosofia hegeliana è quello stesso che autorizza il cittadino
alfabetizzato a sentirsi piu’ intelligente di Eraclito, di Empedocle o di
Zenone, per il solo motivo che egli è nato dopo di costoro e che quindi è
maggiormente nelle grazie del progresso del mondo.
ENRICO STIACCINI
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