sabato 7 febbraio 2015

Cusano, la dotta ignoranza e il valore della parola. DI ENRICO STIACCINI



Cusano, la dotta ignoranza e il valore della parola.

La filosofia non è altro che la scoperta dell’intelligenza e dell’intelletto che ad essa consegue. Leggendo dentro la mente, infatti, io posso dirmi intelligente e l’intelletto sarà il frutto o prodotto di quella lettura interna. La filosofia, cioè, inaugura una realtà seconda, quella appunto intellettuale, che si vuole affatto distinta dalla realtà mortale, esteriore, in base alla quale l’uomo si trova obbligato a fare i conti con “quel che passa il convento”, ossia con lo spettacolo della storia, dovendo il mortale fare i conti, facendosene magari un’idea, con le cose che a lui si apprendono dall’esterno. Il filosofo non ammette che l’uomo che si trova costretto a prendere atto del mondo esteriore, regolandosi sulla base di quello, possa dirsi libero, poiché costui sarà di fatto sempre assoggettato al potere di qualcosa di estraneo alla sua intima natura, ovverosia asservito al potere delle cose e non invece libero artefice della propria esistenza, considerata filosoficamente come prodotto schietto e genuino dell’attività intellettuale dell’essere pensante. Si è tanto più filosofi quanto meno si riceve notizia di sé dall’esterno e quanto più, al contrario, la nostra esistenza viene a essere il felice prodotto della nostra stessa attività intellettuale, la quale sola ci dà spontaneamente il senso della nostra identità. L’identità del filosofo, venendo in tal modo a coincidere perfettamente con l’attività del pensiero stesso, non è un’identità rigida, assegnata da un potere esterno alla coscienza secondo il modo dello spazio e del tempo, bensì è un’identità che, per quanto sempre identica a se stessa quanto al suo essere il prodotto costante del rapporto interno che si opera tra il soggetto e l’oggetto o noumeno – nascosti entrambi a qualsiasi rappresentazione – appare al mondo come discontinua, dandosi a divedere piuttosto come una sequela di giustapposizioni o di occasioni felici, che non sono rette fra loro da nessun principio o legge di causalità, il mondo risultante dall’attività operosa dell’intelletto somigliando piuttosto a quel mondo che è in ogni istante “creato da Dio”, avente come unica legge quella suddetta della consonanza tra soggetto e oggetto: io sono in quanto io penso e io penso in quanto io sono. Cartesio, in effetto, nient’altro dice che questo: che la chiave del mio essere è solo il frutto del mio pensamento, ossia segue una regola esclusivamente interna, affatto indipendente e separata da ciò che scintilla o vaneggia davanti ai miei occhi mortali. Ha senso, a questo proposito, parlare di esistenza poetica come affatto contrapposta a qualsivoglia forma di esistenza mortale o esteriore, poiché il tempo e lo spazio in cui il filosofo si trova a vivere istante dopo istante, in modo discontinuo e impermanente, ma al contempo senza soluzione di continuità, non altrimenti debbono essere intesi che come il prodotto di un atto poetico o creativo, la cui operazione, tanto palese nel suo risultato, è invero indimostrabile quanto alla sua immediata operazione, per via del suo collocarsi in un punto remoto da qualsiasi intendimento, la cui natura è dell’increato e del sovrapersonale, non potendosi dare assimilazione alcuna tra l’essere e l’apparire, tra il noumeno e il fenomeno, tra l’atto propriamente poetico – intimior intimo meo et superior summo meo – e il suo risultare all’infuori della sfera coscienziale in cui esso si vuole liberamente prodotto.  
Se venisse meno il senso di due realtà, entrambe umanamente legittime e tuttavia antitetiche fra loro, cadrebbe affatto il discorso della beatitudine filosofica, già enucleato da Aristotele, fra gli altri, quando “Il filosofo” ci parla della vita teoretica come di quella che può dirsi divina a giusto titola, in quanto affatto disgiunta da qualsivoglia esteriorità anti-filosofica, ossia non intensa, non risultante dal limpido e fulgente prodotto della cogitazione – co/agitazione – interiore. L’esistenza teoretica o poetica è in effetto tutto ciò che io posso produrre affatto indipendentemente dalle condizioni spazio-temporali a me assegnate dalla stessa nascita di me in quanto fenomeno mortale, essendo quella rispetto a questa un perpetuo e fecondo guadagno e non invece, come nel caso contrario, una sorta di necrofilo parassitismo, trovandosi l’uomo non filosoficamente libero a nutrirsi piu’ o meno scientemente della mortalità e delle sue infiorescenze.
Dice Shakespeare nel suo sonetto 146: Buy terms divine in selling hours of dross…
Ciò vuol dire che il filosofo non fa nessun conto del tempo mortale, affidato alle cronologie, che naturalmente si perde senza pro e senza coscienza; il tempo esteriore, che non è della stessa natura del tempo interiore, non ha nessun valore per colui che, da filosofo, vive scandendo un tempo affatto altro; del tempo esterno alla coscienza meno si ha notizia o informazione, più possiamo a ragione dirci liberi dalla mortalità e dalle sue catene.
La consonanza tra il sonetto di Shakespeare e la formula cusaniana che compendia il senso della dotta ignoranza è innegabile: quanto più noi rimaniamo ignoranti su tutto quanto viene ad apprendersi a noi dall’esterno, tanto più noi sentiamo e sperimentiamo di essere dotti ovverosia liberi e non schiavi. Non si può negare che nel Cusano sia ben chiaro il senso delle due realtà che si danno contesa nell’uomo: il mondo poetico che affiora dall’intimo della coscienza e il mondo esteriore dei fatti e della storia, sul quale non fa d’uopo affaccendarsi, pena la perdita della nostra libertà stessa. Spinoza afferma che gli uomini, figurandosi di operare per la loro libertà, altro non fanno che stringer le catene della loro schiavitù, poiché è sempre da una coscienza eteronoma che ricevono regole e precetti, conformandosi insensibilmente a un modello già approntato per essi da una qualche entità che non è la pura facoltà intellettiva. Lo stesso Paolo, nella Lettera ai Romani, invita “il fedele d’amore” a non conformarsi per nessun motivo “huic saeculo”, ossia alla legge esteriore del tempo, la quale per il filosofo Bonaventura da Bagnoregio non era altro che “deliciosa caligo”, tanto strenua e possente ebbe a essere la sua attività intellettuale, al punto da renderlo affatto immemore e insensibile delle cose forastiche alla sua coscienza operosa ovverosia al suo intelletto agente.
Quando si pensa che l’operazione hegeliana aveva come unico scopo quello di abbattere la realtà interiore dell’uomo, costringendo il futuro cittadino dello Stato Etico a conformarsi obbligatoriamente a una qualsiasi delle opzioni concesse dalla esteriorità della legge dogmatica dell’etica, non si tarda a intendere che lo hegelismo non è altro che una liquidazione della filosofia stessa, tanto più grave per il fatto che si ammanta del nome di quella, rendendosi in tal modo insospettabile agli occhi degli storici, i quali concludono col percepirla come una naturale evoluzione del pensiero, quasi che l’identità di coscienza, l’essere e il pensiero stesso fossero delle condizioni assoggettate al divenire della storia e non invece, come esse dan prova di essere, dei saldi possessi dell’uomo intelligente…il paradosso e la farragine della filosofia hegeliana è quello stesso che autorizza il cittadino alfabetizzato a sentirsi piu’ intelligente di Eraclito, di Empedocle o di Zenone, per il solo motivo che egli è nato dopo di costoro e che quindi è maggiormente nelle grazie del progresso del mondo. 

                                                                                                                        ENRICO STIACCINI

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